Fare storytelling mi permette di entrare in contatto con persone che altrimenti forse non avrei conosciuto o che magari avrei ignorato, guardato con sospetto, persino giudicato. Ci comportiamo tutti così dopotutto, non è forse vero? Non vogliamo ammetterlo, ma è questo l’atteggiamento in assoluto più diffuso, quello di ignorare gli altri, di evitare di incrociare il loro sguardo a causa di chissà quale paura. Con lo storytelling invece questo atteggiamento deve necessariamente essere abbandonato.

Fare storytelling mi costringe ad avvicinarmi agli altri, a guardarli dritto negli occhi, ad osservarli così tanto in profondità che alla fine sembra quasi di averci instaurato un rapporto stretto, intimo. Alla fine del servizio, non porto a casa solo il pezzo e le emozioni che l’azienda ha saputo regalare, ma porto a casa anche le emozioni che quelle persone hanno trasmesso.

L’osservare, rendendo intimi, consente di andare al di là del lavoratore, del manager, dell’imprenditore, dell’artigiano. Attraverso i volti, gli occhi, le cicatrici, i segni della pelle, uno modo di gesticolare particolare, ecco che la personalità dell’altro si svela, una personalità che uno storyteller deve cercare di cogliere. Perché è vero che il compito dello storyteller è raccontare l’azienda, ma è vero anche che sono le persone che quell’azienda la compongono l’elemento in assoluto più importante, persone che sono lavoratori ma che fuori da quelle quattro mura sono molto altro ancora.

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